In memoria di Mirella Billi
Wilde è a Firenze per due volte, in due periodi distinti e particolarmente significativi, per non dire segnanti, della sua vita privata e artistica. La prima occasione si presenta nell’estate del 1875, all’età di 20 anni, quando, grazie a una borsa di studio del Magdalene College, parte alla volta del Grand Tour che lo porterà in giugno nel capoluogo toscano.
A Oxford, Oscar aveva assistito alle lezioni di John Ruskin sull’arte fiorentina e, come molti altri giovani della sua generazione, era rimasto sedotto dalla prosa di Walter Pater e il suo Studies in The History of the Renaissance (1), perciò l’incontro con l’Italia si accompagna a moti di fiammante passione espressa in Sonnet On Approaching Italy:
I reached the Alps: the soul within me burned,
Italia, my Italia, at thy name. (2)
Giunto a Firenze, Wilde scriverà una lettera al padre, Sir William, in cui descrive la basilica di San Lorenzo, all’interno della quale resta sbalordito di fronte alla fantasmagoria di pietre dure della Cappella dei Principi, “all inlaid with various devices and of different colours, polished like a looking-glass” (3) e della Sagrestia Nuova di Michelangelo, di cui nota la purezza, “built of simply white marble”(4). Prosegue, poi, la visita alle antichità etrusche conservate presso i locali dell’oratorio di S. Onofrio (5). Oltre alla quantità di sarcofagi decorati con bassorilievi colorati o pitture, Wilde nota una tomba ritrovata ad Arezzo all’interno della quale vede un affresco raffigurante un carro condotto da una creatura alata che porta un giovane uomo nudo verso il paradiso (chiamato “Elysium”) dove lo attende un ricco banchetto. Non sappiamo a quale tomba Wilde si stesse riferendo e, anche se l’avesse inventata, la scena descritta appare in linea con le rappresentazioni funerarie della maggior parte delle tombe ritrovate nell’Etruria meridionale (6), ma ciò che importa, per Wilde, è “the state of happiness after death” che pervade la cultura etrusca, la medesima che nota, in Piazza Pitti, al passaggio di alcuni monaci incappucciati dai lunghi abiti bianchi, i quali, pur ricordandogli la terribile Inquisizione, non esita a definire “wonderful”.
Contrariamente all’enorme, per non dire sterminata, schiera di viaggiatori vittoriani che compiono, in massa, gli stessi percorsi descritti nell’immancabile “baedeker”, Wilde, come Lucy Honeychurch di A Room with a View, preferisce seguire un itinerario diverso, di stampo romantico più che turistico. Mentre la letteratura di fine secolo, diretta dall’autorevole voce di Ruskin che infiamma gli animi alla scoperta della pittura gotica, aveva contribuito a orientare l’orizzonte estetico dei turisti borghesi dipingendo una Firenze tanto ricca di primitiva bellezza quanto arretrata (poco importava che fosse stato proprio il Granducato di Toscana, primo Stato in Europa, ad abolire il tribunale dell’Inquisizione, la tortura e la pena di morte nel 1786), Wilde preferisce lasciarsi ispirare dalle sensazioni che gli suscitano la contemplazione dei variopinti mausolei medicei e dei seducenti affreschi etruschi.
In effetti, la raccolta di poesie che Wilde pubblicherà nel 1881 scaturisce proprio da questo sentimental journey italiano tutto personale, rielaborato in chiave lirico-simbolica (7), attraverso il quale il poeta riutilizza forme del Romanticismo inglese che vanno da Wordsworth a Byron, per ridefinire l’idea stessa del proprio io poetico.
In By the Arno, uno dei due componimenti derivati direttamente dal suo soggiorno fiorentino, Wilde si riferisce al capolavoro letterario Ode to A Nightingale, scritto dal celebre poeta John Keats, per trasformarne il simbolo centrale, l’usignolo, che il poeta romantico aveva eletto a simbolo di immortalità, in metafora della condizione di felicità del poeta. L’usignolo ha prodotto le sue dolci note tutta la notte, ma, al sopraggiungere dell’alba, evocata magistralmente dalle “long white fingers of the dawn”, sia l’usignolo che la felicità che aveva prodotto nel poeta sono in pericolo:
Fast climbing up the eastern sky
To grasp and slay the shuddering night
All careless of my heart’s delight,
Or if the nightingale should die.(8)
La notte, fatta di tremori e delizie, minacciata dalla luce del mattino che vuole ucciderla (il verbo “slay”, letteralmente, significa “massacrare”) sembra essere un’allusione alla vera natura dell’io poetico che è in grado di esprimersi liberamente soltanto se rimane nascosto e protetto dalla cortina dell’oscurità. In altre parole, si potrebbe affermare che la vera voce poetica e, per estensione, l’identità dell’uomo dietro la poesia, può emergere soltanto se dietro una maschera che ne occulti, seppur temporaneamente, la vera essenza.
In San Miniato, l’altra poesia ispirata dal soggiorno fiorentino, Wilde parla della sua ascesa, sia fisica che spirituale, verso la basilica romanica, sotto la protezione della Vergine Maria alla quale rivolge un accorato lamento:
O crowned by God with thorns and pain!
Mother of Christ! O mystic Wife!
My heart is weary of this life
And over-sad to sing again. (9)
Come notano i critici Beckson e Fong, l’autore invoca un parallelismo fra “the crucified Christ and the Romantic image of the martyred artist”(10) e, allo stesso tempo, si lega alla figura di Miniato, un oscuro santo di origine armena, il quale, decapitato sotto l’imperatore Decio intorno al II secolo d.C., secondo la leggenda, avrebbe portato la propria testa sul colle dove intendeva essere sepolto. Evocando la figura del martire cristiano per costruire la propria identità poetica, Wilde, deve anch’egli, necessariamente, “morire”, cioè, attraversare una profonda riflessione poetica e personale, per rinascere e approdare nell’Elisio, in quello “state of happiness” che aveva intravisto nell’affresco etrusco, per potersi, finalmente, esprimere.
In effetti, la riflessione scaturita dall’esperienza italiana di Poems, che, nelle parole di Jon R. Snyder, costituisce “Wilde’s first attempts to address Italian themes as he sought to establish himself as a writer”(11), dà l’avvio alla carriera dello scrittore che, in pochi anni, giunge a una maturazione letteraria senza pari e di cui, del resto, aveva già dato prova. Le brillanti doti linguistiche di Wilde gli valgono l’ingresso nei circoli dell’alta borghesia londinese che lo scrittore non esita a scandalizzare con memorabili aforismi e paradossi.
Come spiega Alex Falzon, Wilde si impossessa della lingua borghese vittoriana, dimostrandone tutta la pomposa vacuità; egli prende le parole che i vittoriani stessi usavano per creare consenso (“doxa”) e le usa per creare dissenso:
“Il suo linguaggio, perciò, è fondato sul paradosso (paradoxa: contro l’opinione dominante);
è un modo deviante con cui parafrasare il pensiero corrente.” (12)
Purtroppo, i media vittoriani, abituati a una scrittura fatta di un miscuglio di moralismo e sentimentalismo, non riescono a scindere l’ironia di Wilde dalla sua vita e finiscono per compiere una totale identificazione fra le parole dello scrittore e la sua personalità, rendendolo, così, il bersaglio della satira giornalistica. Le vignette di Punch lo dipingono come un affettato, superficiale e decadente, nel migliore dei casi, e un manipolatore, corruttore di fanciulli e vizioso nei peggiori (13) . Dopo la pubblicazione di The Picture of Dorian Gray, considerato talmente oltraggioso che alcune parti del romanzo saranno usate contro di lui in tribunale (14), alcuni critici ritennero che Wilde fosse Dorian Gray e che, come lui, conducesse una doppia vita. Perciò, videro nelle parole del racconto una sorta di confessione, se non addirittura un’espiazione, della vita che, agli occhi della morale vittoriana, appariva come una pericolosa menzogna (15).
In realtà, Wilde non si nascondeva affatto (anzi, come abbiamo visto dalle sue liriche, rifletteva attentamente sulla propria identità, rendendola oltremodo visibile agli occhi di chi voleva vedere), anche perché non era certo un mistero che il suo matrimonio con Constance Lloyd, contratto nel 1884, era da tempo in crisi. Lo scrittore, che non aveva mai celato il proprio orientamento, aveva, del resto, già intrattenuto alcune relazioni sentimentali, dapprima con Robert Baldwin Ross, giornalista canadese anch’egli apertamente gay, e poi, soprattutto, con Lord Alfred Douglas, detto “Bosie”, figlio del marchese di Queensberry contro cui Wilde intenterà la causa di diffamazione che sarà la rovina della sua carriera e della sua vita.
Nel maggio del 1894, a un anno di distanza dal processo e all’apice della sua carriera, Wilde e Bosie scelgono Firenze per un breve soggiorno. La scelta dei due amanti fu determinata, oltre che dalle note attrazioni monumentali e artistiche, anche dal fatto che in città l’omosessualità era di fatto tollerata. Mentre, infatti, in Inghilterra, l’emendamento firmato da Henry Labouchère nel 1885 puniva gli atti di “gross indecency” – cioè omosessuali – col carcere, la Toscana godeva della libertà concessa fin dai tempi del Codice Napoleonico che, invece, non criminalizzava tali pratiche. Pertanto, alcuni gentiluomini inglesi che furono implicati in scandali nazionali decisero di trasferire la propria residenza in terra fiorentina in modo da salvare -anche soltanto in apparenza- la propria reputazione e dedicarsi alle proprie passioni più o meno indisturbati. Fu questo il caso di Lord Henry Somerset, il parlamentare che nel 1870 scappò da Londra a Firenze a seguito dello scandalo di Cleveland Street quando la polizia londinese rivelò l’esistenza di un lupanare per soli uomini in cui ragazzi aitanti, chiamati “telegraph boys”, venivano assunti per soddisfare le voglie di una clientela altolocata. Somerset si stabilì in via Guido Monaco 1, dove, oltre a ricevere ospiti cui serviva soltanto caffè poiché il tè gli ricordava troppo il puritanesimo vittoriano, scriveva poesie di dubbio gusto. Wilde, che aveva recensito proprio queste poesie, intitolate programmaticamente Songs of Adieu, nel Pall Mall Gazette del 1889, aveva dichiarato col suo solito sarcasmo: “He has nothing to say, and says it”(16).
È a Firenze che Wilde, lontano dall’ipocrita Inghilterra, in compagnia del suo amante, compone A Florentine Tragedy, un dramma che non susciterà mai l’approvazione della critica (17), ma che, in realtà, è di grandissimo interesse e valore, poiché non mostra soltanto la capacità unica di Wilde di riattivare voci e modelli letterari del passato, come ho già scritto altrove (18), ma descrive un processo di frammentazione e ricomposizione dell’identità, nonché una straordinaria autocoscienza che anticipa esiti degni del modernismo di James Joyce o Virginia Woolf.
Nell’opera, un mercante fiorentino di nome Simone torna a casa e trova la moglie, Bianca, in compagnia di un giovane nobile, Guido Bardi, figlio di una delle casate più in vista della città. Simone, intuendo la tresca amorosa fra i due, finge di esserne ignaro e coinvolge il giovane Guido in gioco verbale fatto di allusioni e doppi sensi sempre più incalzanti e che hanno come climax un duello mortale durante il quale il giovane perisce per mano del mercante. Tuttavia, nonostante l’apparente semplicità dell’intreccio, l’opera nasconde una serie di aspetti simbolici profondi che toccano temi che Wilde aveva già analizzato nel suo dramma precedente, Salomè, e che qui raggiungono una complessità che anticipa, perfino, alcuni aspetti della psicanalisi freudiana.
Fin da subito, Simone padroneggia la scena, imponendo sulla moglie Bianca la sua autorità di pater e rendendola quasi ridicola, diminuendone la sua presenza sia come personaggio che come donna. Il mercante blandisce il figlio del “Lord of Florence”, Guido, proponendogli sete e damaschi finissimi, decorati con meravigliosi ricami, e rivolgendogli continue lodi e apprezzamenti, mentre, allo stesso tempo, è rude e scontroso con la moglie, che accusa di annoiare l’ospite con “foolish chatterings”(19) e di cui arriva perfino a denunciare la bruttezza: “Beauty is a gem she may not wear”(20). Simone, invece, si complimenta per la finezza e per l’eleganza di Guido, tanto che lo invita a indossare le sue gemme e i suoi vestiti, come fosse una delicata dama di corte:
I have a curious fancy
To see you in this wonder of the loom
Amidst the noble ladies of the court,
A flower among flowers (21)
Il mercante sembra ironizzare sulle qualità “cortesi” di Guido a tal punto che lo incita a suonare il liuto -attività riservata prevalentemente alle donne- con un enfatico “Oh! Play, sweet Prince”22 e la dolcezza che gli riserva stride con le parole burbere che rivolge a Bianca, che vorrebbe perfino vendere insieme a tutte le altre merci:
From this time forth
My house, with everything my house contains
Is yours, and only yours (23)
Mentre Bianca viene così ridotta a un oggetto inanimato, Guido assume dei tratti sempre più ambigui e “femminei”, finché Simone getta la maschera, per così dire, e rivela le sue vere intenzioni, invitandolo a sguainare la spada per vedere “If my sword/is better tempered than this steel of yours”(24). La provocazione sfocia nel duello durante il quale Simone riesce ad avere la meglio su Guido, che dopo aver ferito con la spada, strangola a mani nude. La tragedia sembra terminare con una sorta di “lieto fine” con Simone e Bianca che si riconciliano -in maniera alquanto macabra- sul cadavere di Guido, tuttavia, a una più attenta analisi dell’opera, le cose non sono come appaiono.
Fin dall’inizio, il dialogo tra Simone e Guido può essere letto sia come un atto di ostentata virilità da parte di Simone che, in maniera più sottile, un gioco di seduzione, tanto che, al culmine della tensione, Guido ammette che nulla gli darebbe maggior piacere che “stand fronting you with naked blade”(25). Il duello, pertanto, sembrerebbe essere l’epilogo di un corteggiamento che trova nella morte l’unica possibilità di soddisfazione del desiderio omoerotico -neanche poi tanto- latente. La violenza dell’assassinio, perpetrato prima con la spada poi a mani nude, potrebbe, perciò, a prima vista apparire come una sorta di esorcismo sessuale, nel senso che l’unico modo che Simone ha per riappropriarsi della moglie-oggetto Bianca, ristabilendo l’ordine patriarcale e sociale, è quello di uccidere, distruggendolo, il desiderio nei confronti di Guido. Tuttavia, questa lettura stride se si riflette sul ruolo esageratamente passivo della figura femminile di Bianca che, contrariamente alle tante eroine di Wilde, protagoniste brillanti delle sue numerose commedie, nonché soggetti attivi in tutto e per tutto – come spiega magistralmente nel suo saggio Mirella Billi (26) – sembra qui essere stranamente e inspiegabilmente inesistente e, perfino, negato nella sua stessa presenza scenica, tanto che Wilde le riserva pochissime battute.
È molto più plausibile, invece, come nota Sherry D. Lee (27), che Bianca rappresenti una funzione simbolica, cioè quella del rispecchiamento. Poco prima del duello e al momento dei saluti, Guido, infatti, le rivolge alcune parole rivelatrici:
In those stars, your eyes, let me behold
Mine image, as in mirrors (28).
Sembra che Guido non veda Bianca, ma se stesso, come Narciso, riflesso nei suoi occhi, trasformandola in uno specchio del suo desiderio per Simone. Se Bianca, dunque, non è un vero e proprio personaggio ma una funzione, a lei viene conferito il compito (centrale, peraltro) di rispecchiare la vera natura dei due personaggi maschili che sono impegnati in un rituale di corteggiamento/accoppiamento per tutta la durata del dramma.
L’atto finale del duello, più che una cancellazione del desiderio, sembrerebbe sancirne l’accettazione, poiché la violenza con cui viene eseguito e l’insistenza sui simboli omoerotici parrebbero in linea con la visione di Wilde che la rigenerazione di una nuova identità poetica possa avvenire soltanto mediante un atto di estrema auto-affermazione. È dunque attraverso il passaggio del desiderio da uno stato iniziale di frammentazione (frustrazione) a uno di completezza (appagamento), simbolicamente incarnato dalla “violenza” sessuale di Simone su Guido, che può avvenire l’incondizionata accettazione della propria natura omosessuale.
È suggestivo pensare che Wilde, giunto all’apice della sua carriera e certo di vivere, da outsider, in una società oppressiva e bigotta, che limita, invece di favorire, ingegni come il suo, abbia espresso un concetto così sovversivo in una forma “travestita”. L’apparente “ingenuità” della forma realista, che sembrerebbe ristabilire l’ordine patriarcale, in verità, nasconde significati ben più profondi e trasgressivi. Alla forma triangolare che sembrava opporre tre identità distinte: quella di Simone, il maschio, attivo e dominante; Bianca, la femmina, passiva e sottomessa; e Guido, il queer, ambiguo e seducente, si sostituisce una nuova forma, che sarebbe meglio definire “circolare”, in cui le tre identità non sono affatto distinte ma risultano essere tre parti della stessa identità che alla fine, dopo la sintesi finale, si trovano riunite. Gli aggettivi finali, “strong” e “beautiful”(29), che Wilde mette in bocca a Bianca e Simone nelle battute conclusive, sanciscono dunque una definitiva e inequivocabile consapevolezza della meravigliosa esistenza di un io rinnovato e cosciente.
È, quindi, di nuovo, l’incontro con la cultura e l’ambiente fiorentino (anche se, ovviamente, non possiamo ascrivere alla città tutti i meriti della parola di Wilde!) a ispirare un’opera di una modernità sorprendente, che anticipa gli esiti della letteratura gay degli anni Sessanta del Novecento, e che avrebbe sicuramente condotto a sperimentazioni più complesse e ramificate. Purtroppo, soltanto l’anno seguente, nel 1895, Oscar Wilde subirà il processo che lo condurrà in carcere e l’esperienza della prigione di Reading avrà come conseguenza il ritorno a forme di espressione più caute, sentimentali, e meno articolate dal punto di vista linguistico e della rielaborazione dei modelli socio-culturali.
Dopo il rilascio, Wilde partirà per un esilio auto-imposto, lontano dall’Inghilterra vittoriana, e cambierà il suo nome in Sebastian Melmoth, un ibrido fra il martire Sebastiano, immortalato nei capolavori del maestro Guido Reni, che lo scrittore aveva ammirato già durante il suo soggiorno genovese, e quello di Melmoth, l’errante protagonista eponimo del romanzo gotico di Charles Maturin, Melmoth the Wanderer, condannato a vagare per il mondo, solo e privo di felicità, per espiare una misteriosa colpa. Esule, Wilde tornerà nella sua amata Italia, a Napoli, ma sarà accolto con diffidenza, se non addirittura ostilità, sia dall’intelligentsia locale che dalla popolazione (30): il viaggio, questa volta, non sarà più una scoperta ma una fuga, forse proprio dall’io che aveva così brillantemente difeso e emancipato nelle sue opere.
Nonostante la vicenda biografica, tuttavia, l’opera di Wilde non ha mai cessato di essere rappresentata, studiata, amata e riscritta, godendo sempre, come il giovane scrittore ebbe a dire nella sua prima visita a Firenze, di quello strano “state of happiness after death” raffigurato sull’affresco etrusco in S. Onofrio. Forse, da qualche parte, anche Wilde, come il giovane sul carro, è finalmente giunto al sacro Elisio, libero di sognare un mondo finalmente privo di mediocrità e ipocrisia.
Note bibliografiche:
1 Wilde chiama il libro: “My golden book; I never travel anywhere without it; but it is the very flower of decadence: the last trumpet should have sounded the moment it was written”, Belford, Barbara, Oscar Wilde: A Certain Genius, New York, Random House, 2000, p. 53.
2 Complete Works of Oscar Wilde, Introduced by Merlin Holland, Glasgow, HarperCollins, 2003, p. 768.
3 In Miracco, Renato, Oscar Wilde’s Italian Dream 1875-1900, Damiani, 2020, p. 22.
4 Ibidem.
5 Il Museo Archeologico di Firenze fu inaugurato nel 1870 nella sede del Cenacolo del Fuligno, presso il monastero di S. Onofrio, con una collezione di reperti derivanti dallo smembramento delle collezioni medicee e lorenesi. Presto, l’incremento delle collezioni rese necessaria la ricerca di ulteriori spazi espositivi, così, nel 1880, il Museo Archeologico fu collocato nell’attuale Palazzo della Crocetta, in via della Colonna.
6 Vedi Briguet, Marie-Françoise, “Art”, in Etruscan Life and Afterlife. A Handbook of Etruscan Studies, ed. by Bonfante, Larissa, Detroit, Wayne State U. P., 1986, pp. 156-162.
7 Vedi Buffoni, F., “The Poetic Work in Oscar Wilde’s Canon”, in Franci, Giovanna, Silvani, Giovanna, eds., The Importance of Being Misunderstood: Homage to Oscar Wilde, Bologna, Pàtron, 2003, pp. 203-209.
8 Complete Works, op. cit., p. 750.
9 Complete Works, op. cit., p. 749.
10 Beckson, Karl, Fong, Bobby, “Wilde as Poet”, in Raby, Peter, ed., The Cambridge Companion to Oscar Wilde, Cambridge, Cambridge U.P., 1998, p. 57.
11 Snyder, Jon R., “Wilde/Italy: Nationalism and Religion in the Early Poetry of Oscar Wilde, in The Importance of Being Misunderstood, op. cit., p. 325.
12 Wilde, Oscar, Aforismi, scelti, tradotti e introdotti da Alex Falzon, Milano, Mondadori, 1998, XLI.
13 Cfr. Bristow, Joseph, “A complex multiforme creature’: Wilde’s sexual identities”, in The Cambridge Companion to Oscar Wilde, op. cit., pp. 201.
14 Ibid., pp. 211-212.
15 In realtà, come chiarisce Peter Ackroyd nell’Introduzione al romanzo, The Picture of Dorian Gray fece scandalo più per gli attacchi che Wilde, da irlandese, rivolse alla società inglese su più livelli: “[Wilde] mocked both the artistic pretensions and the social morality of the English, and some of the most powerful passages in the novel disclose the grinding poverty and hopelessness against which “Society” turned its face”, in Wilde, Oscar, The Picture of Dorian Gray, London, London, Penguin, 1985, xi.
16 Leavitt, David, Florence: A Delicate Case, New York and London, Bloomsbury, 2002, p. 94.
17 L’opera sarà messa in scena molte volte, sia in Inghilterra che in America, raggiungendo il suo apice con la messa in opera da parte del compositore Alexander Zemlinsky, che la mette in scena ad Amburgo nel 1981, tuttavia il Sunday Times la giudicherà “tedious”, mentre il Financial Times usa il più evocativo “tasteless junk”. Cit, in Tanitch, Robert, Oscar Wilde on Stage and Screen, London, Methuen, 1999, p. 334.
18 Sul macrotesto di Wilde come riscrittura si veda il mio saggio “Contaminations and rewritings: the palimpsest of Oscar Wilde’s plays”, in De Zordo, Ornella, ed., Saggi di Anglistica e Americanistica. Temi e prospettive di ricerca, Firenze, Florence U.P., 2008, pp. 85-121.
19 Complete Works, op. cit., p. 721. 20 Ibid., p. 728.
21 Ibid., p. 724.
22 Ibid., p. 727.
23 Ibidem.
24 Ibid., p. 731.
25 Ibidem.
26 Billi, Mirella, “Parody of models in the comedies of Oscar Wilde”, in Franci, G., Silvani, G., eds., The Importance of Being Misunderstood, op. cit., pp. 191-200.
27 Si veda a questo proposito, l’interessante contributo di Sherry D. Lee, “A Florentine Tragedy, or woman as mirror”, Cambridge Opera Journal, 18, 1, 2006, pp. 33-58.
28 Ibid., p. 729.
29 Ibid., p. 733.
30 Nel suo interessante studio su Oscar Wilde in Italia, Renato Miracco scrive che: “Wilde’s stay in Capri did not start in the best of circumstances: upon his entrance with Bosie for dinner at the Quisisana hotel, all the English guests got up in unison from their tables, ready to leave the dining room should Oscar have remained.”, Miracco, Renato, Oscar Wilde’s Italian Dream, op. cit., p. 92.